Uadi el Sheikh: su e giù per le antiche cave Nel mondo dell'antico Egitto

Archeologia Viva n. 61 – gennaio/febbraio 1997
pp. 54-63

di Alfredo e Angelo Castiglioni

Ancora una volta nel deserto egiziano con gli scopritori di Berenice Pancrisia alla ricerca delle cave di selce il minerale che nelle mani dell’uomo diventò uno degli strumenti più preziosi per il progressivo miglioramento del vivere quotidiano

Mai, come in questi ultimi decenni, i deserti egiziani, sia l’Occidentale che l’Orientale, hanno conosciuto un processo di abbandono così completo. Un tempo il traffico carovaniero era intenso, come ci informano le testimonianze giunteci di antiche spedizioni egizie nell’interno alla ricerca di minerali che questa terra inospitale custodisce gelosamente. Allo scopo di migliorare la documentazione sui siti archeologici del deserto, abbiamo organizzato, con Giancarlo Negro, una spedizione alle antiche cave di selce dell’uadi el Sheikh, un tributario fossile del Nilo, scoperte nel 1896 dall’inglese Heywood Seton-Karr nel Deserto Orientale egiziano. Una raccolta di manufatti portati da questo esploratore si trova al Liverpool Museum. I reperti furono accuratamente studiati dall’allora direttore Henry O. Forbes e i risultati furono pubblicati, nel gennaio del 1900, nel Bollettino dello stesso museo.

Abbiamo lasciato Beni Suef e costeggiamo la riva destra del Nilo verso El Minya. Dopo una cinquantina di chilometri raggiungiamo l’uadi el Sheikh e attraversiamo un boschetto di palme che crescono stentatamente tra la sabbia allo sbocco di questo antico fiume fossile. Ci accompagnano nella spedizione, oltre a Giancarlo Negro, scopritore con noi di Berenice Pancrisia e al quale dobbiamo un’approfondita ricerca storica su queste antiche cave, anche Luigi Balbo, responsabile tecnico, alla guida dell’autocarro (un Iveco 75 P.C. 4×4), uno dei due mezzi della spedizione. Il fondo dell’uadi, cosparso di sabbia grossolana e compatta, intervallato da zone più cedevoli, ci obbliga, per evitare imprevedibili insabbiamenti, ad abbassare la pressione degli pneumatici (i battistrada, allargandosi, dispongono di una maggior superficie di appoggio).

Nonostante i numerosi viaggi nel deserto, rimaniamo sorpresi nel constatare come siano sufficienti pochi chilometri per passare dal verde lussureggiante, che cresce intorno al Nilo e ai suoi canali, a un ambiente estremamente arido, punteggiato da contorte acacie e patiti cespugli. Anche l’aria perde rapidamente umidità e il vento, non più ostacolato dagli alberi, è teso e fastidioso. Avanziamo lentamente tra le pareti sfaldate che racchiudono l’uadi; in elevazione possono raggiungere una settantina di metri e ci impediscono di arrivare fino all’hammada, la soprastante zona pianeggiante sulla quale dovrebbero trovarsi le cave di selce che stiamo cercando.

Nel primo pomeriggio vediamo un sentiero che s’inerpica lungo i fianchi della parete destra dell’uadi, in quel punto meno scoscesa. Salendo, notiamo che il tracciato è stato lungamente percorso da uomini e animali che hanno lasciato, nel corso degli anni, profondi solchi. Raggiunta la cima, ci troviamo di fronte a una vasta spianata cosparsa di blocchi di selce e frammenti sparsi di scarti di lavorazione. Non riusciamo a individuare scavi; appare evidente un antico utilizzo della selce, limitata alle vene affioranti in superficie. Inoltre, in una grotta scavata dagli agenti atmosferici notiamo alcune ossa, forse umane, e piccoli frammenti di vasellame. Il tempo necessario per una rapida documentazione fotografica e torniamo sul fondo dell’uadi. Riportiamo sulle carte le coordinate elaborate dai sestanti satellitari installati sugli automezzi. […]