Metti un vaso precolombiano… Archeologia e diritto

Archeologia Viva n. 58 – luglio/agosto 1996
pp. 84-85

di Stefano Benini

Cosa succede quando si acquista all’estero?
Si va dalla possibilità di trattenere il reperto alla restituzione senza indennizzo

Più volte abbiamo avuto modo di occuparci del problema dell’acquisto di beni archeologici, e storico-artistici in generale, da parte di privati (vedi, da ultimo, AV n. 55, Del privato o dello Stato?). Si è detto, in sostanza, alla luce delle più recenti sentenze della Corte di Cassazione, che il possesso di reperti è in linea generale illegittimo, perché le cose, da chiunque e in qualsiasi modo ritrovate nel sottosuolo, appartengono allo Stato. Di conseguenza la vendita di tali beni è da considerare vietata, e chiunque venga trovato in possesso di beni archeologici, oltre che vedersi sequestrati gli oggetti, può subire un processo per furto, o ricettazione, o, nella migliore delle ipotesi, per incauto acquisto.

Qualora il possessore possa vantare una legittima causa di detenzione (in genere, per aver ricevuto tali beni, per vendita, successione, o donazione, da persone che le possedevano da prima del 1909), deve essere in grado di provarlo: altrimenti può trovarsi esposto, oltre che alle conseguenze penali ora dette, all’azione di rivendica da parte dello Stato.

Cosa succede quando il possesso, o la vendita, riguardino cose d’arte provenienti da altri paesi? Si possono acquistare in Italia, o nel paese di origine per poi importarli, reperti che costituiscono testimonianze di altre civiltà? I quesiti involgono un groviglio di problemi di non facile soluzione: deve tenersi conto, infatti, non solo del diritto interno, ma anche del diritto internazionale, oltre che del diritto degli Stati di origine dei reperti.

Prima di tutto una premessa. Secondo il nostro ordinamento, in materia di beni mobili, «il possesso vale titolo». Secondo l’art. 1153 del Codice civile, chiunque riceva una cosa mobile, in base a un accordo, anche non scritto, idoneo a trasmettergliela (vendita, permuta), ne acquista la proprietà, anche se chi glielo cede non è il legittimo proprietario dell’oggetto: purché ritenga in buona fede di ricevere la cosa dal legittimo proprietario, che tale appaia in base a circostanze di affidabilità secondo la diligenza che si richiede a una persona comune. Esempio: se io acquisto da una persona che possa darmi affidamento sulla provenienza dell’oggetto un pezzo di arredamento, un genere di abbigliamento, una bicicletta, un elettrodomestico, ne acquisto legittimamente la proprietà anche se dovesse poi risultare che la cosa è rubata: venendo fuori il legittimo proprietario, io ho la prevalenza su di lui. Purché io sia in buona fede. E la buona fede si presume, ovvero dovrà essere il mio contendente in causa a dimostrare che io ero a conoscenza della provenienza delittuosa del bene, o che comunque non vi erano le condizioni per cui io mi potessi fidare del rivenditore (per essere lo stesso un noto ricettatore, o persona dall’attività poco chiara).

Diciamo subito che la regola del «possesso vale titolo», se vale per i generi di commercio ora indicati esemplificativamente, non vale né per i beni immobili, né per i beni mobili registrati (automobili, barche), soggetti a un regime di pubblicità che consente all’acquirente di accertarsi sulla titolarità del bene da parte di chi si propone come venditore. La regola non è neppure applicabile alle cose d’arte, che appartengono allo Stato o agli enti territoriali (regione, provincia, comune), o che appartengono a privati e sono state oggetto di notifica. In tal caso, a meno che il passaggio tra il proprietario e l’acquirente non sia stato autorizzato dal Ministro dei beni culturali, la vendita è nulla, e non si potrà applicare la regola «possesso vale titolo»: nel conflitto tra il vero proprietario e l’acquirente, sia pure in buona fede, ha la prevalenza il primo. […]