Conoscete i sotterranei di Narni? Insieme per l'archeologia

Archeologia Viva n. 54 – novembre/dicembre 1995
pp. 82-86

di Roberto Nini

L’antichissima città del Ternano sospesa sul fiume Nera ha un sottosuolo che attende di essere visitato
Autori delle esplorazioni sono i componenti del locale Gruppo speleologico sempre pronti a farci da guida

Percorrendo la via Flaminia, a soli 90 chilometri da Roma, il secondo centro abitato che si incontra, uscendo dal Lazio, dopo Otricoli, è Narni. Il luogo è stato frequentato da epoche remotissime, testimoniate da reperti del Paleolitico inferiore e medio e da ceramiche del Neolitico e dell’età del Bronzo. Anche i rinvenimenti di resti paleontologici, fra i quali numerose zanne di Elephas Antiquus, scoperte nel 1988 in una cava di ghiaia, testimoniano l’interesse e l’importanza della zona.

Narni fu un’importante roccaforte degli Umbri con il nome di Nequinum, conquistata nel 299 a.C. dalle truppe dei consoli M. Fulvio Petino e T. Manlio Torquato nell’ambito dell’espansione di Roma verso nord. La sconfitta, descritta da Livio, fu resa possibile dal tradimento di due nequinati che, attraverso un cunicolo, condussero i legionari all’interno delle mura.
È questa la prima testimonianza del sottosuolo scavato nella città di cui parlano le fonti.

La città fu ribattezzata Narnia, dal Nar, oggi Nera, il fiume che scorre nella valle, e vi su dedotta una colonia di diritto latino. Dopo la guerra sociale del 90-88 a.C. divenne un municipio ascritto alla tribù Papiria. Risalgono all’età romana notevoli resti del ponte fatto costruire da Augusto lungo la via Flaminia, parti delle mura urbiche, del lastricato del foro e una serie di epigrafi e resti marmorei, la maggior parte di origine funeraria.

Fino agli anni Settanta un’indagine accurata del sottosuolo non era stata mai intrapresa. Nel 1978, a seguito di ricerche d’archivio, un gruppo di speleologi di Narni, di recente formazione, si interessò dell’acquedotto della Formina, che fino a cinquanta anni prima aveva servito egregiamente la città. Fu una sorpresa scoprire che si trattava di un’opera romana La fitta serie di sopralluoghi, in buona parte sotterranei, i rilievi e la documentazione fotografica raccolta hanno consentito di appurare che il manufatto si snoda per quasi 13 chilometri da un luogo ancor oggi chiamato Capo dell’acqua, dal latino caput aquae, nei pressi del paese di S. Urbano.

La galleria fu in parte scavata nella roccia e in parte costruita in muratura, coperta per quasi tutto il tracciato con grosse pietre rettangolari, contrapposte fra loro a formare la tipica sezione “a cappuccio”. L’acquedotto, per non diminuire la pendenza che doveva rimanere costante su tutto il percorso, fu fatto passare attraverso tre colline. Il traforo più lungo, quello di monte Ippolito, venne realizzato iniziando la perforazione da entrambi i lati.

Le due squadre di operai non si incontrarono per un errore di circa due metri sui 650 di lunghezza totale, che rettificarono con un raccordo “a esse”, chiaramente visibile: errore trascurabile se consideriamo che quel lungo tratto non ha ingressi intermedi, che avrebbero facilitato l’orientamento. A intervalli regolari si trovavano gli spiramina, cioè bocchette laterali alla galleria e pozzetti che garantivano l’accesso per la manutenzione e la fuoriuscita dell’aria, spinta dal fluire dell’acqua. […]