Mons Claudianus: la madre delle colonne Alle sorgenti della grandiosità

Archeologia Viva n. 53 – settembre/ottobre 1995
pp. 46-57

di Alfredo e Angelo Castiglioni

In una delle loro ultime spedizioni nel deserto orientale egiziano i fratelli Castiglioni hanno documentato una cava per l’estrazione di grandi monoliti in granito destinati alla celebrazione del potere
L’incredibile durezza del lavoro e le condizioni ambientali di una regione fra le più ostili del pianeta lasciano immaginare la tragica situazione in cui operavano i forzati di una colonia dei tempi di Traiano

Osservando le colonne di un tempio raramente ci capita di pensare al lavoro e alla sofferenza che hanno comportato la loro costruzione, la perizia tecnica e i molteplici problemi legati al trasporto dalle cave, talvolta ubicate in zone remote, fino ai porti d’imbarco.
Considerazioni che quel giorno di gennaio nascono invece spontanee in ognuno di noi davanti all’incredibile visione di un’enorme colonna di oltre 200 tonnellate che giace spezzata fra i detriti in quell’antica cava di granito. Ci troviamo ai piedi del Gebel Fatireh (1355 metri), in Egitto, fra i rilievi del Mons Claudiaus dei romani.
La colonna in un pallido rosato, perfettamente liscia e rifinita, ha un diametro di circa due metri: un’opera colossale frutto dell’amabilità tecnica e del lavoro di migliaia di uomini anonimi. In questo luogo, al tempo di Traiano (98-117 d.C.), come si rileva da alcune iscrizioni, c’era una colonia penale dove migliaia di deportati estraevano il compatto e prezioso granito per trasformarlo nelle grandi colonne che avrebbero ornato lontani templi e case patrizie.

Scoperta nel 1822 da James Burton e Richard Wilkinson, quest’estesa zona di estrazione e lavorazione del granito è chiamata dagli arabi Umm Dikal, “la madre delle colonne”: nome fantasioso che, tuttavia, meglio di ogni altro giustifica ai loro occhi le decine di monoliti, alcuni perfettamente finiti, altri appena abbozzati, altri, infine, spezzatisi durante la movimentazione, che giacciono disseminati su una vasta area. Sembrano il frutto spontaneo di questi aridi monti sfaldati, dove le tracce del lavoro umano non sono sempre facilmente individuabili, cancellate, nel corso dei secoli, dall’incessante azione eolica e da antiche fiumane distruttive.

La colonna che stiamo osservando si è spezzata circa a metà della sua lunghezza, per un probabile errore tecnico durante la movimentazione. Fu abbandonata in quel luogo a destare, nei secoli, lo stupore di coloro che hanno avuto la possibilità di vederla. Forse gli antichi viaggiatori avranno cercato d’immaginare, come noi, l’immane dispendio d’energie che la sua costruzione ha comportato, avranno discusso a lungo sui problemi connessi al trasporto, forse elaborando le nostre stesse teorie, più o meno fantasiose, senza, comunque, trovare una risposta definitiva. Un manufatto di queste dimensioni sarebbe, ancor oggi, di difficile costruzione e il trasporto comporterebbe problemi di non facile soluzione, incuneato com’è nel sinuoso uadi, ingombro di pietrame e sabbia grossolana. […]