Ngalawa: navigare a Zanzibar Tradizioni millenarie

Archeologia Viva n. 52 – luglio/agosto 1995
pp. 34-41

di Giusi Grimaudo

Lo studio delle imbarcazioni tradizionali ancora in uso nell’Oceano Indiano consente un affascinante viaggio nel tempo alle origini della conquista del mare

A Zanzibar è l’alba e come ogni mattina centinaia di sambuchi e canoe raggiungono le spiagge per scaricare il pesce dopo una notte in mare. I pescatori risalgono le spiagge per vendere ai contadini, arrivati in bicicletta, i prelibati “pesci imperatore”, detti changu, e delle strane razze veri a chiazze blu. Poi i proprietari di canoe tornano alle imbarcazioni per caricarsi sulle spalle l’antenna con la vela, il timone e la pagaia e riporli al sicuro nelle capanne.
Di lì a poco la marea, che qui compie un’escursione di oltre quattro metri, comincerà a calare e nel giro di poco tempo tutte le imbarcazioni resteranno a secco: i sambuchi inclinati su un lato e sostenuti dal palo che, pur pendendo libero oltre la murata, andrà a conficcarsi saldamente nella sabbia; le canoe a due bilancieri obliquamente appoggiate sopra uno di essi; le piroghe semplici stabilmente orizzontali, avendo, a differenza delle precedenti, il fondo piatto.

Ho avuto occasione di veleggiare più volte con una canoa a doppio bilanciere ed è stato un tuffo nelle origini della navigazione a vela. Non si sale a bordo delle canoe. Piuttosto si entra o, meglio, ci si infila all’interno di esse, strette e profonde come sono, per sentirsene improvvisamente avvolti. E si entra a bordo sempre bagnati, poiché per raggiungerle è necessario nuotare, dopo aver dato tempo alla marea di riportarle a galla.

Nell’arcipelago di Zanzibar si costruiscono diversi tipi di imbarcazioni: il Mtumbwi è l’imbarcazione più semplice, cioè la piroga monossile a fondo piatto e senza bilancieri; la Ngalawa è una canoa anch’essa monossile ma con doppio bilanciere; il Mashua dhow è il “sambuco” di origine araba, qui costruito secondo la tradizione locale. Fino a poco tempo fa veniva fabbricato anche un’altro tipo di imbarcazione, il Mtepe, lungo 15 metri, con lo scafo cucito con fibre di cocco e la vela quadrata di stuoia. Un’antica e assai nota leggenda, narrata ancora in quest’area dell’Oceano Indiano, parla di montagne calamitate poste a nord di Monbasa che inevitabilmente attraevano verso terra i battelli costruiti con chiodi e farramenti. Solo i Mtepe, senza chiodi, potevano sfuggire all’attrazione e al naufragio. […]