Passaggio in Iraq Quella terra sconvolta tra i due fiumi

Archeologia Viva n. 51 – maggio/giugno 1995
pp. 18-33

di Judith Lange

L’inviato di Archeologia Viva ha potuto visitare la Mesopotamia di Saddam Hussein riportando l’immagine di un paese dove la situazione delle grandiose testimonianze archeologiche non fa eccezione al generale stato di crisi
Agli errori della politica culturale di regime si sommano le conseguenze delle guerra che hanno paurosamente abbassato il livello di sicurezza di un patrimonio fondamentale per la storia della civiltà

Iraq: Mesopotamia, Sumeri, Assiri, Babilonesi, Niniveh e Ur, Abramo e Gilgamesh, Sargon e Nabucodonosor, Saladino e Saddam Hussein, il diluvio universale e la guerra del Golfo… quanto bagaglio, quanti riferimenti storici antichi e recenti, quanti pensieri e aspettative si accavallano nella mente quando si varca la soglia proibita dell’Iraq. Il paese dei diecimila siti archeologici, dei seimila anni di civiltà e dalle troppe guerre.
Ora, in pieno clima di embargo, l’Iraq azzarda la carta della riscoperta storica per fare avvicinare lo “straniero”, nuovamente benvenuto, anche se nei limiti di una nazione che sul piano delle comodità ha poco da offrire, ma che ha deciso – almeno sembra – di spalancare le porte per mostrare la propria cultura millenaria.

Il nostro è stato un viaggio straordinario sotto tutti i punti di vista: il fatto di potersi muovere abbastanza liberamente nel paese (a eccezione delle zone off-limits, che purtroppo sono tante all’estremo sud e all’estremo nord, per ragioni militari interne ed esterne, per i conflitti intestini tra Sanniti, Sciiti e Curdi, per il confine tracciato dal 32° parallelo che passa per Ur, per la chiusura di alcuni tell archeologici come Khorsabad, usati per trincerare le truppe), di poter incontrare una popolazione estremamente curiosa e ospitale, dignitosa e sorridente nonostante la povertà che si legge nella faccia di chi non ha sufficiente cibo e soffre per la mancanza dei generi più elementari (sono spariti i pezzi di ricambio, dalla ruota al bullone, scarseggiano carta, latte, zucchero, farina… e senza farina il pane non si fa!), e di poter toccare le pietre delle ziggurath, affacciarsi sulla soglia delle moschee dorate del primo Islam e magari adirarsi per le troppe demolizioni dei centri storici e per gli avventati e fantasiosi “restauri di regime”, come è successo, per esempio, a Babilonia.

Vorrei descrivere alcune giornate di questo viaggio, non soltanto archeologico, in un Iraq che vuole cancellare i disastri delle guerre (mezzo milione di morti in dieci anni di conflitto Iran-Iraq negli anni Ottanta e poi la guerra del Golfo nel 1990) sostenute da un’idea di supremazia a tutti i costi.

Primo giorno. L’unica strada che porta in Iraq passa dalla Giordania, paese che tiene aperte le frontiere e fornisce a Baghdad, grazie a uno statuto speciale, viveri di prima necessità limitati allo stretto fabbisogno nazionale, contro autobotti di petrolio; un traffico, questo, severamente controllato nei check-point dell’Onu. Il territorio giordano penetra in Iraq come un calcio di martello: 300 chilometri di strada dritta che attraversano l’Arabia Petrea, cumuli di sassi grigi e sabbiosi a destra e a sinistra, triste terra di nessuno.

Finalmente gli edifici della frontiera, capannoni di cemento, un Welcome to Iraq gentile, ma fermo e autoritario: alla documentazione per l’entrata manca un certificato medico anti-Aids, decretato tre giorni prima dal governo per tutti gli stranieri. Sei ore di attesa, si trovano delle siringhe coreane sigillate, un medico fa il prelievo certificato e, cambiata la vettura (la macchina giordana non può circolare in Iraq), insieme alla guida giordano-curda Ziad e all’iracheno Mohammed, si procede per altri 600 chilometri verso Baghdad, su un’immensa autostrada vuota nel vuoto argilloso di un deserto piatto e tombale: nessuna macchina, nessun aereo, nessun caffè.
Appaiono i primi cartelloni con l’immagine di Saddam, dal sorriso marziale, ora paterno, ora felino. Qualcuno dice: «Noi amiamo la pace, non odiamo nessuno, a eccezione degli americani e degli ebrei». Messaggio ricevuto, siamo in Iraq. […]