Al capezzale dei Bronzi di Riace Salvataggio dei beni culturali

Archeologia Viva n. 39 – giugno 1993
pp. 10-23

di Piero Pruneti

Gli eroi dimenticati di Riace tornano alla ribalta con un restauro d’avanguardia che una volta per tutte dovrà risolvere le gravi minacce di corrosione annidate all’interno delle stesse statue

Sono passati dodici anni, ed è ancora vivo nella memoria il clamoroso successo che ottenne l’esposizione al pubblico, prima a Firenze e poi al Quirinale, dei Bronzi di Riace all’indomani di un lungo lavoro di restauro che sembrò avere del miracoloso. L’eccezionale fortuna di quella mostra, che scatenò l’interesse di massa verso l’archeologia, non si è ripetuta per nessun’altra opera giuntaci dal passato.

Tuttavia, nonostante l’entusiasmo all’epoca suscitato dai Bronzi e il permanere del mistero della loro provenienza e identità, è inesorabilmente calato l’interesse verso i due eroi, ridotti quasi a vita cenobitica in quella sala messa loro a disposizione nel Museo nazionale di Reggio Calabria, se si pensa alle folle che un tempo se li contendevano. Ora l’intervento promosso dalla Finmeccanica per rispondere a un reale problema di conservazione delle statue bronzee ha risvegliato l’attenzione verso i due capolavori: il “caso Riace” non è risolto, si è riaperta l’istruttoria, si è rimesso in moto il processo del “restauro come conoscenza”.

Nel corso dei restauri, condotti a Firenze dopo la scoperta del 1972 nel mare di Riace, si era presentato un quesito di ardua soluzione: le terre di fusione residue e i depositi dovuti alla secolare permanenza dei reperti sul fondo marino, nocivi per la conservazione del bronzo, erano risultati difficili da eliminare. L’interno delle statue è accessibile solo da due fori: sul colmo della testa della statua A, dall’occhio mancante della statua B e soprattutto dai piedi, dopo la rimozione degli zoccoli in piombo (i “tenoni”). Questa presenza di depositi interni, rendendo le statue assai sensibili alle pur minime variazioni del microclima (uno dei maggiori fattori di rischio ambientale è l’aumento dell’umidità dell’aria che, quando supera il 40%, innesca il processo corrosivo del bronzo ad opera dei sali cloruri) ha finora impedito di esporre i Bronzi in sedi diverse dal museo che li ospita, ma, soprattutto, pregiudica il loro equilibrio conservativo.
In poche parole, con il precedente restauro fiorentino si riuscì a ripulire bene, e quindi a stabilizzare, le superfici esterne dei Bronzi, mentre non fu possibile intervenire sulle superfici interne lasciando queste parti instabili in condizioni di attivazione dei processi corrosivi. Cosa che si può ottenere solo svuotando le statue.

Già da alcuni anni l’Istituto centrale del restauro (Icr), che con indagini endoscopiche aveva accertato all’interno delle statue la presenza di terre di fusione (la terra veniva tolta in antico dove possibile, tanto che si stima in 30-40 kg la materia rimasta in ciascun bronzo) impregnate di sali, si era proposto di risolvere il problema rendendo accessibile l’interno, per le necessarie operazioni di svuotamento, attraverso un manipolatore a distanza. A tal fine l’Istituto ha realizzato un prototipo ispirato ad analoghe strumentazioni concepite per impieghi nell’industria farmaceutica e nel nucleare; questo prototipo è stato successivamente perfezionato, in modo da consentire un intervento di pulizia meccanica impossibile con le tecniche tradizionali a causa delle ridotte dimensioni e della faticosa ubicazione dei fori di accesso esistenti nelle statue.

Si tratta di un’operazione altamente sofisticata, di vera e propria chirurgia endoscopica realizzata attraverso un accesso minimo, il cosiddetto “intervento dal buco della serratura”: il restauratore agisce a distanza, mediante dispositivi che ne “prolungano” la mano, e controlla le operazioni su un monitor. Diventa così possibile verificare l’efficacia dei trattamenti destinati a inibire i processi corrosivi. […]