Archeologia Viva n. 36 – marzo 1993
pp. 60-65
di Elena Antonacci Sanpaolo
Nonostante le difficoltà nel trovare i necessari punti di contatto fra il mondo archeologico e quello chimico-fisico la nuova disciplina sta dimostrando il proprio indispensabile ruolo per la comprensione delle antiche tecniche metallurgiche
Nel caleidoscopico campo di ricerche archeometallurgiche, strumento importante è senz’altro la lettura delle fonti antiche e, in particolare, di Plinio che nei libri XXXIII e XXXIV della sua Naturalis Historia descrive i metodi per estrarre i metalli preziosi, quali l’oro e l’argento, ma anche quelli per ottenere i metalli meno nobili, come il rame, lo stagno e il piombo. Egli delinea anche i processi di fusione in lega dei diversi metalli, ma, al di là di alcune preziose informazioni, molto spesso i resoconti tecnici sono arricchiti da aggiunte personali inesatte e, talvolta, addirittura fantastiche.
All’imprecisione delle fonti antiche suppliscono però le moderne tecniche d’indagine dell’archeometallurgia, termine che si può considerare un neologismo della lingua italiana, mutuato dal più usuale inglese archeometallurgy.
L’archeometallurgia è una disciplina recente, sorta grazie alla collaborazione tra archeologi e specialisti delle scienze esatte. Finora la cooperazione è consistita solo – e molto spesso consiste ancora – in un incontro occasionale fra i rappresentanti delle due culture, quella umanistica e quella scientifica, producendo lavori che hanno sovente un linguaggio dicotomico, in cui pochi sono i punti di intersezione tra il mondo archeologico e quello chimico-fisico. […]