Due mesi tra i Matakam. C’era una volta in Africa… Il continente perduto

Matakham caccia all'elefante

Archeologia Viva n. 189 – maggio/giugno 2018
pp. 50-57

di Angelo Castiglioni

Momenti di una popolazione sulle montagne del Camerun dove due giovani fratelli innamorati dell’Africa – destinati a diventare famosi – condussero una delle loro prime ricerche etnografiche…

Con emozione pubblichiamo questa testimonianza inedita che Angelo Castiglioni ha voluto scrivere per Archeologia Viva, ricordando una delle esperienze più significative, sotto il profilo documentario e umano, fra le molte vissute in terra d’Africa insieme all’inseparabile fratello Alfredo, venuto a mancare due anni fa.
Si parla di un mondo praticamente scomparso in poco più di mezzo secolo, nell’impatto con culture esterne e logiche economiche che hanno saputo trasformare in migranti interi gruppi umani rimasti in equilibrio per millenni nel proprio ambiente. Davvero… c’era una volta in Africa!

Piero Pruneti

Nel mese di gennaio 1960, il Camerun otteneva l’indipendenza dalla Francia. Noi – io e Alfredo, che all’epoca non avevamo fatto ancora ventitré anni – proprio in quel mese sbarcammo nel porto di Duala, sul golfo di Guinea, da un mercantile partito da Marsiglia. Volevamo raggiungere il nord del paese e i monti Mandara dove vivevano diversi gruppi etnici: i Matakam, i Mofu, i Kapsiki, i Muktele, popolazioni paleonegritiche che avevano mantenuto forme culturali tra le più arcaiche. I pastori Fulbé, islamici, che vivevano nelle savane ai piedi dei monti, li disprezzavano; li chiamavano con il termine generico di Kirdi, ‘uomini senza fede’.

L’isolamento di questi gruppi etnici aveva determinato il persistere di una religione originaria, legata al culto degli antenati e degli spiriti, ai quali di frequente venivano dedicate offerte sacrificando galline e capre. I Matakam, il gruppo più numeroso, credevano in una divinità suprema, Dzikile. Noi volevamo arrivare su quelle montagne e documentare la loro vita, anche con foto e riprese cinematografiche (all’epoca dovevamo portarci dietro un pesante fardello fatto di cinepresa e di ingombranti “pizze” di pellicola), colmando una lacuna nelle scarse conoscenze etnologiche su queste popolazioni. […]