Il Cammino di Santiago. Memorie dalla “Via Lattea” Fra Medioevo e contemporaneità

Archeologia Viva n. 233 – settembre/ottobre 2025
pp. 12-24

di Piero Pruneti; scheda di Silvia Leporatti

L’itinerario di pellegrinaggio più famoso del mondo dopo un lungo periodo di oblio è al massimo della popolarità percorso ogni anno da centinaia di migliaia di “pellegrini” credenti e non credenti grazie alla sua capacità di offrire a quanti lo percorrono la scoperta di un nuovo rapporto con se stessi

È la metafora della vita. Alfa e omega. Inizio e fine. Nel mezzo c’è il Camino. In media ci vuole un mese (se lo zaino non è troppo pesante e le gambe non fanno scherzi), ma in partenza sai già che il Camino de Santiago avrà inesorabilmente una conclusione, basta non scoraggiarsi e non farsi tentare dai taxi alla prima strada asfaltata che si incrocia (appositi cartelli con numeri di chiamata sono disseminati ovunque…).

Per i credenti che arrivano a Santiago de Compostela (San Giacomo di Compostella) – una volta varcata la soglia della grandiosa cattedrale con il suo Portico della Gloria, forse il monumento iconografico più completo della scultura medievale – quelle cerimonie cantate, affollatissime, che risuonano fra le volte romaniche, l’emozionante spettacolo del butafumeiro, la visita alle reliquie di uno dei santi più amati della cristianità e patrono di Spagna, sono un annuncio di paradiso, il concretizzarsi di una speranza, la rigenerazione, insomma l’inizio, non il termine di un viaggio.

Per i non credenti – e sul Camino oggi sono tanti – il viaggio, il “durante”, vale più della mèta, perché quegli ottocento chilometri di percorso sono proprio come l’esistenza di ognuno, per cui l’arrivo è solo una conclusione, mentre quello che conta sono le sofferenze e le gioie del percorso, i ricordi della gente che hai incontrato, con cui hai fatto un pezzo di strada insieme, le immagini che si sono fissate nella mente, le molte situazioni che ti hanno coinvolto, quello che hai dato e quello che hai ricevuto.

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