Passaggio in Casentino Antiche terre d'Italia

Archeologia Viva n. 72 – novembre/dicembre 1998
pp. 28-39

di Carlo Starnazzi

In Toscana l’alta valle dell’Arno si offre quale nicchia di grande interesse per chi cerca nel passato le radici del presente: dalla preistoria agli insediamenti etruschi e romani
fino allo splendore medievale di monasteri e castelli sullo sfondo di una dimensione naturalistica fra le più intatte dell’intero Appennino

Nel settore orientale dell’Appennino toscano, contrassegnato da un’imponente sequenza di dorsali, si innalza il Falterona (1654 m), la montagna da cui nasce l’Arno, tra la giogaia del Pratomagno e il Mugello. Quando non c’è foschia il suo profilo vagamente piramidale si distingue benissimo dalla lontana Firenze.
Dopo il sollevamento dell’Appennino durante il Miocene (6 milioni di anni fa), all’inizio del Quaternario (2 milioni di anni fa), ai piedi del Falterona si formò un bacino intermontano, il Casentino, alimentato da una fitta rete di torrenti e dal paleo corso dell’Arno, con la conseguente formazione di una grande conca lacustre estesa da dove oggi si trova il centro di Stia sino all’insellatura di Bibbiena (ambedue in provincia di Arezzo).

A seguito di un potente processo di erosione le acque del lago, tramite il fiume maestro divenuto emissario, defluirono nella fossa tettonica della Val di Chiana e poi del Valdarno, e il Casentino assunse l’attuale configurazione. Nella sua composita varietà di sistema montuoso, collinare e vallivo, caratterizzato da abbondanza di acque e rigogliose foreste, l’intera regione casentinese ha mantenuto nel tempo un senso di diffusa sacralità, che ancor oggi pervade quei solitari paesaggi, punteggiati di casolari sparsi, monasteri, pievi severe, castelli turriti.

Fin dalla Preistoria la valle ha costituito un’importante via naturale di transito tra il nord e il sud della penisola. Le numerose stazioni del Paleolitico inferiore e medio scoperte in Casentino attestano momenti di migrazione attraverso il raccordo pedeappenninico emiliano e romagnolo, da parte di un’umanità che, a partire dall’ultimo periodo interglaciale (120.000 anni fa), penetrò nell’area aretina lungo le sponde e i terrazzi dell’Arno alla ricerca di nuovi habitat.

Il collegamento attraverso i valichi casentinesi con i versanti padani e la costa adriatica si definì ulteriormente in epoca storica, quando precisi tracciati viari divennero fondamentali per gli stessi Etruschi che li praticarono fin dal VI sec. a.C. E mentre la parte meridionale dell’Etruria e della Val di Chiana, con le fiorenti città di Cerveteri, Orvieto, Cortona e Chiusi, si configurava come area di convergenza e irradiazione delle merci, il Casentino acquisì ben presto il ruolo dinamico di cintura di trasmissione, nella direttrice del raccordo naturale Tevere-Chiana-Arno, per veicolare importanti relazioni economiche e culturali tra l’Etruria interna e tirrenica e quella settentrionale adriatica di Felsina (Bologna) e del porto emporio di Spina (nel sito delle attuali valli di Comacchio).

Uno dei valichi più accessibili per superare la catena appenninica venne individuato lungo il crinale del Falterona, dove indirizzava, risalendo il corso dell’Arno, un’antica arteria stradale, ricalcata poi dalla via Flaminia minor (187 a.C.) che, mettendo in diretta comunicazione il Casentino con la Val di Sieve (Mugello), proseguiva oltre l’Appennino e la valle del Savena per Bologna. Proprio alla fine del VI sec. a.C. nuclei di Etruschi provenienti da Volsinii (Orvieto) o da Chiusi, attraversate le valli appenniniche, penetrarono nella pianura padana creandovi i due insediamenti di Marzabotto e Spina. Pertanto a partire dall’età etrusca arcaica la conca casentinese divenne un’area privilegiata di transito e il Falterona, coperto da profonde faggete, ricco di fossi e di torrenti che fin dalla sorgente alimentavano il fiume Arno, acquisì nella sua maestosità il ruolo di “montagna sacra”.

Nelle balze montane in prossimità dell’antico passo sul Falterona, nel 1838, venne recuperata fortuitamente una statuetta di bronzo. In breve furono portati alla luce oltre seicento bronzetti, per lo più di carattere votivo, a cui si aggiunse un’abbondante quantità di armi, fibule, monete, oggetti raffiguranti parti del corpo umano. I reperti furono venduti. Alcune statuette vennero cedute al Louvre, altre al British Museum, una al Museo di arte e storia di Ginevra, molte finirono in collezioni private.

Il piccolo ripiano alpestre che aveva restituito i bronzetti, segnato da uno speciale culto religioso, vide mutare ben presto il toponimo di Ciliegeta in Lago degli Idoli e attorno a quella stipe votiva per oltre un secolo calò il fascino misterioso dell’esistenza di tesori nascosti. Solo nell’agosto del 1972, per porre termine allo stillicidio dei recuperi clandestini, l’allora Soprintendenza alle antichità dell’Etruria avviò una campagna di scavi.

La ricca documentazione archeologica del Lago degli Idoli rivela, per la quantità e la forma delle offerte votive, una prolungata frequentazione del sito a scopo rituale. Le acque del luogo dovevano contenere prodigiose virtù salutari, capaci di sanare piaghe, ferite o malattie (anche per la presenza in esse di creosòto, prodotto dai tronchi di faggio immarciscenti nel fondo del lago, con proprietà antisettiche, cauterizzanti e coagulanti).

La sacralità della roccia e dell’acqua, nella loro valenza simbolica di unità cosmica, è attestata nella valle e nelle aree limitrofe non solo dai celebri santuari del crudo sasso della Verna e di Santa Maria del Sasso, ma anche dal Sasso Fratino e dal Sasso di Simone, per tradizione eletti, tra cielo e terra, come sede naturale di prodigiose epifanie divine. […]