Fra le macerie di Mostar Futuro del passato

Archeologia Viva n. 41 – settembre/ottobre 1993
pp. 62-66

di Nella De Angeli

Il racconto e le immagini dei nostri inviati nella capitale dell’Erzegovina martoriata dalla guerra
La distruzione di una stupenda città di moschee e bazar turchi che la storia aveva voluto punto d’incontro di civiltà diverse

Poco più di un anno fa potevamo parlare di Mostar come una ridente cittadina sulle sponde delle verdi e vorticose acque della Neretva. Capitale dell’Erzegovina, vantava la presenza di culture diverse e di imponenti monumenti, ricchi di fascino orientale. Le opere d’arte, testimonianza concreta dei valori culturali, della storia e della progressiva crescita di questo popolo, sono oggi distrutte o danneggiate gravemente. Serbi contro croati e musulmani coalizzati prima, croati contro i musulmani poi, hanno dimostrato di voler annientare il “nemico” colpendo innanzitutto la testimonianza della sua memoria.

Siamo partiti da Posusje, a 50 chilometri da Mostar, nel primo pomeriggio, grazie all’aiuto di padre Madrenko, ex parroco di Mostar, un interprete per noi fondamentale, sia per tenerci al corrente degli avvenimenti diffusi dalla radio croata, sia per farci superare i posti di blocco lungo la strada e in città. Condizione imprescindibile per ottenere il suo appoggio è stata la promessa di fare tutto in fretta, prima del coprifuoco che era alle 18.

Il paesaggio sconfinato dei campi, in un mosaico di colori sorprendente, potrebbe farci dimenticare l’angosciante situazione che queste popolazioni stanno vivendo. Ma, in lontananza, il primo posto di blocco ci rammenta che stiamo entrando in una zona quasi giornalmente colpita dai proiettili dei cannoni. «Non si spara ora», ci dicono i soldati croati ai quali il padre chiede se nella mattinata ci sono stati combattimenti. Proseguiamo mentre si cominciano a vedere sull’asfalto i crateri delle esplosioni.

Superata Polog, si scorgono all’orizzonte le montagne dove sono appostati i serbi e, sotto di noi, la città di Mostar, l’affascinante Andetrium del periodo romano. Mentre Fabrizio Sbrana, il nostro fotoreporter, scende dall’auto per scattare, padre Madrenko mi parla della superiorità strategica delle postazioni serbe che, oltre a “vigilare” su Mostar, controllano insieme ai croati le vie di accesso alla città. Alla nostra destra si stagliano le montagne dalle quali, soltanto una settimana fa, i tiratori scelti sparavano su questi piccoli paesi e sulle automobili di passaggio.

Superiamo un secondo posto di blocco, dove controllano se portiamo armi, ed entriamo in città. Quasi tutti gli edifici hanno i segni della distruzione; pareti crivellate da raffiche di proiettili, tetti crollati, tante case rase al suolo e incendiate, ovunque cumuli di macerie. Ecco i primi monumenti: la cattedrale e la sede vescovile. Del Duomo, costruito in questo secolo, sono rimasti solo i muri esterni. La sede vescovile è stata anche incendiata.
La montagna, prima sullo sfondo e lontana, ora si fa sempre più vicina e trasmette una sensazione di disagio, simile a quella che provano i bambini mentre armeggiano con gli oggetti del divieto e stanno in allerta per sentire se arriva la mamma. Il nostro chi-va-là era legato agli spari, in lontananza.
Arriviamo al parco cittadino di Liska, vicino all’ospedale, prima della guerra sede di incontri serali e ora cimitero provvisorio di croati e musulmani. Il cimitero vero e proprio si trova infatti in una posizione scoperta e controllata dai serbi che spesso hanno sparato sul ristrettissimo corteo di familiari. Di qui la scelta del parco, circondato da una folta vegetazione. […]