Anfore romane in libertà Il quotidiano nel mondo antico

Archeologia Viva n. 45 – maggio/giugno 1994
pp. 64-68

di Piero Dell’Amico

Molto sappiamo già delle anfore dalla fabbricazione all’uso al trasporto via mare ma cosa succedeva dopo lo scarico dalle navi e lo svuotamento? Ecco l’affascinante e inesauribile trama dei mille riusi

Quando si parla di anfore, assurte ormai da parecchi anni a simbolo dell’archeologia subacquea, balzano subito alla mente alcune immagini alle quali la maggior parte degli articoli e dei testi che parlano di questi contenitori ci hanno abituati: la tavola tipologica del Dressel, navi cariche di anfore stivate col caratteristico sistema a strati sovrapposti e schiavi che le scaricano, magazzini pieni di questi recipienti coi puntali piantati nel suolo sabbioso. Immediatamente l’immagine di questo vaso viene messa in relazione ai commerci: era il contenitore principe, il container per antonomasia dell’antichità. Nelle anfore veniva trasportato di tutto: olio, vino, miele, frutta, carne, garum, minerali, frumento, solo per citare alcuni dei principali prodotti.

Su questa funzione primaria dell’anfora nessuno nutre dei dubbi. Ma cosa succedeva a questi vasi una volta che, arrivati a destinazione, venivano svuotati del loro contenuto? In alcuni casi venivano gettati via: ciò dipendeva soprattutto dal prodotto trasportato il quale, a seconda delle caratteristiche fisico-chimiche (odore, viscosità), impediva il riutilizzo del recipiente.

Le anfore finivano allora in apposite discariche: una di queste, ormai celeberrima, è il Monte Testaccio a Roma

In altri casi, e sono molti, le anfore venivano invece riutilizzate (oggi diremmo “riciclate”) per altri usi, anche se talvolta – raramente a mio parere – trovavano nuovo impiego nel trasporto di merci e derrate. Ed è sugli usi secondari dell’anfora che vogliamo parlare. […]